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“Stavamo dicendo di panino con la milza”

Che poi, “panino” lo chiamate voi che non siete palermitani. Il palermitano, se non lo dice in dialetto, lo chiamerà focaccia e basta.
Antica Focacceria San Francesco
Il panino con la milza… o, per meglio dire, ” ‘u pani c’ ‘a meusa“… è… Palermo. O si odia o si ama, non c’è via di mezzo.
Provate a nominarlo, descriverlo o offrirlo a qualcuno: le reazioni saranno due. O si illumina in viso e vi dice solo: “Da chi?”, mentre si avvia, oppure fa la faccia storta, si mette la mano davanti, emette suoni di disgusto. Bene, il primo è un palermitano, vero o ad honorem, il secondo potrà amare questa città, ma non ne farà mai parte fino in fondo.
Ma facciamo conto che siate del primo tipo, che abbiate detto:“Da chi?” e che ci siamo avviati.
Ed ecco che nasce la prima questione di appartenenza. Perché in questa città fatta di cose povere e superbe, ognuno è convinto di conoscere il posto migliore in cui mangiare il migliore panino e di quel posto ama tutto, i muri, le sedie (se ci sono, se amate il mevusaro della Vucciria, dovete mangiare in piedi, in mezzo alla strada), il mevusaro e il suo stile.
Perchè il panino con la milza, anche se è il più povero e proletario degli snack, anche se è umile che più non si potrebbe, ha un suo cerimoniale.
Rochi, il meusaro della Vucciria

Qualcuno vi porterebbe , dunque alla Vucciria, qualcuno a Piazza Marina, sotto i ficus secolari, che sembrano delle gigantesche capanne, qualcuno a Porta Carbone, dove lo mangiavano i camionisti, alle 7 del mattino, con la vista delle barche da diporto ormeggiate alla Cala, annaffiandolo col vino bianco. Mentre la gente prende il cappuccino e il cornetto.
E ne trovereste degli altri, che hanno scovato un banchettino, un bugigattolo chissà dove, nei vicoli e nei mercati e vi diranno che è la “meglio mevusa della città”.
Se veniste con me a mangiarlo, vi porterei alla Focacceria San Francesco, perchè è il posto più antico e piano piano sto diventando antica anch’io e quel posto lo amo.
Lo amo perchè sia che arriviate (a piedi, s’intende) da via Maqueda, sia che arriviate da Piazza Rivoluzione, se non ci siete mai stati vi sembrerà di scorgere in scorcio prospettico, un locale dall’aspetto antiquato, una bottega che si apre su una via stretta e tortuosa, con le case che incombono, da una parte e dall’altra della strada. E senza marciapiedi, che se passa un’automobile vi dovete appiattire contro il muro. Ma improvvisamente…bang! Davanti alla porta del locale si apre una piazzetta fuori dal tempo, con tanto di chiesa romanica(e romantica, va forte per i matrimoni) e pavimento a “balate” e palazzi antichi che la racchiudono. Peccato per i tavolini, che ne hanno preso possesso, insieme agli ombrelloni e ai divisori per distinguere i settori di servizio. Una volta non c’erano e potevate anche andarvelo a mangiare sul marciapiedi, il vostro panino bello caldo.
Il panino con la meusa.

Ma pazienza, quel che non è cambiato è l’odore, il profumo dello strutto caldo e della milza cotta che deve avere ormai, dopo più di cento anni, impregnato i muri e l’aria. Quell’odore che fa brontolare di golosa attesa gli stomaci degli estimatori e che fa diventare verdognole le facce dei detrattori.
Ma entriamo.
Il locale sembra rimasto fuori dal tempo, i tavolini Liberty, di ferro battuto col piano di marmo grigio, i lampadari in stile, accesi sempre, di giorno e di sera, il piano di sopra da dove si mangia e si osserva il via vai degli avventori. Da qualche tempo ci trovate altri piatti della gastronomia siciliana, ma non ci si va apposta per assaggiarli, altrove li trovate anche migliori.
No, il Re è sempre lui, il panino con la milza, al quale è consacrato il bancone centrale, d’epoca anche questo, col mevusaro in grembiule, che officierà per voi questo rito antico.
Il "vecchio" focacciere.
Chiedete:”Una focaccia“.
Vi sarà risposto: ” Come la vuole?”.
Ancora una volta è alla prova la vostra palermitanitudine dell’anima.
Potrete averla “schietta”, con milza e basta, “maritata” con milza e formaggio e “completa”, con milza, formaggio e ricotta fresca. E provate a indovinare quale preferisce mangiare il palermitano vero…
Dunque chiedete una focaccia completa, con l’aria lievemente scandalizzata al pensiero che il mevusaro abbia visto in voi uno stomachino debole. Lui si china sul tegame, un tegame lustro di strutto, inclinato da un lato, incongruamente grande, visto che, a una prima occhiata vi sembra vuoto.
Meusa in cottura

Ma guardando meglio vedrete tutta la milza ammucchiata da un lato, calda ma lontana dallo strutto che soffrigge in modo impercettibile sul fondo del tegame che, appunto per raccoglierlo, si tiene inclinato. Con mossa veloce, il mevusaro trascina giù nel grasso la giusta quantità di milza e la ripassa velocemente nello strutto. Bisogna dire, a questo punto, che il ripieno della “vera” focaccia, non è solo milza, ma fettine di milza e di polmone bolliti precedentemente e “scannarozzato”, cioè la trachea e tutti quei tubicini che stanno nel collo. E’ importante che ci siano tutti, perchè un morso li riconosce: la milza, cremosa e vellutata, il polmone elastico e lo scannarozzato un po’ calloso e croccante sotto i denti.
Il panino con la milza (pani ca meusa)

L’officiante raccoglie un giusto mix dei tre componenti con una forchetta a due denti( o una forchetta normale a cui siano stati eliminati i due rebbi centrali), lo sgronda un po’(ma non troppo) dall’eccesso di strutto e lo preme contro il panino, la focaccia rotonda, col sesamo sopra, ricca di mollica e tagliata per poco più di 3/4.
Sempre tenendo la forchettata di ripieno sul pane, dà due o tre scrolloni, per evitare che vi sgoccioli lo strutto addosso e far sì che, nello stesso tempo, il pane ne assorba il giusto.
Poi, con un movimento fluido e veloce, aggiunge una cucchiaiata di ricotta di pecora, bianca e freschissima e una sfioccata di caciocavallo stagionato, tagliato a fili sottili.
A quel punto( siete emozionati) vi “consegna” la vostra focaccia completa.
Non ve la porge e non ve la dà…ve la consegna, come un segreto o un’onorificenza.
Voi la tenete in mano qualche secondo, lo strutto comincia a violare il tovagliolino di carta e l’odore sontuoso e prepotente prende possesso della vostra persona(lo avrete addosso e nei capelli fino a sera).
A questo punto…occhio! L’ultima prova di palermitanitudine: non date il primo morso restando eretti in posizione verticale, ma piegatevi leggermente in avanti, che lo strutto caldo, gocciolante, non vi macchi i vestiti. Questo piccolo inchino davanti alla focaccia che sta nella vostra mano dice: “Questo è un palermitano vero!”
pani ca meusa
E adesso mangiate, presto, prima che si raffreddi.
Ci sono dei mezzi limoni, sul bancone, ma non prendeteli, non assassinate il meraviglioso concerto di sapori di questa esperienza unica col limone che “me lo fa digerire meglio”…è un cibo eccessivo e pesante, siate coraggiosi, sfidatelo senza mezze misure!
E beveteci sopra solo del vino o, meglio della birra, o birra e gazzosa… non sciupate tutto con una cocacola!
(Foto mie, racconto di anita per gennarino.org)

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