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Ischia

“Ischia, un sogno lungo tre giorni”

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Quale voce viene sul suono delle onde
che non sia la voce del mare?
È la voce di qualcuno che ci parla,
ma che se ascoltiamo tace,
proprio per esserci messi ad ascoltare.

Incredibile ma vero: io, che quando avevo letto del concorso organizzato da Malvarosa edizioni e finalizzato alla consegna dei Food Blog Awards avevo rinunciato in partenza (pensando che *tanto, figurarsi, chissà quante persone più brave di me parteciperanno e quindi che speranze mai posso avere?*) non solo ho deciso negli ultimi giorni di partecipare ma ho addirittura vinto. Già, vinto. Nella sezione food photography. E  grazie a questa vittoria, mi sono ritrovata, all’improvviso, catapultata ad Ischia, dove da sempre sognavo di andare senza mai riuscirci.

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Superata l’incredulità, e non è stato facile abituarmi all’idea che stesse accadendo proprio a me, ho iniziato a vivere l’isola. Con una passeggiata solitaria (sono stata la prima ad arrivare) lungo le strade del paese. Che però solitaria non è rimasta a lungo:  grazie ad uno di quei miracoli che solo grazie ad internet possono accadere, mentre passeggiavo lungo il mare mi sono vista sorridere da lei, Lucia. Mi aveva riconosciuto, sapevo che ero nella *sua* isola, e mi è venuta incontro. Senza sapere in quale punto dell’isola fossi, è uscita e si è diretta esattamente dove ero io. Sentiva che mi avrebbe incontrato, mi ha detto, e mi ha accompagnato  con il suo sorriso a conoscere angoli ed aspetti del paese che da sola non avrei potuto scoprire. Come la struttura della via principale di Ischia Ponte, divisa a metà: da una parte i palazzi nobiliari – qualcuno fatiscente, qualcun altro in via di recupero, ma tutti assolutamente stupendi – dall’architettura tipicamente seicentesca e dall’altra case piccole e modeste, caratterizzate spesso da un portone ad arco che altro non era che il vecchio ricovero della barca “di famiglia”.

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E grazie alla sua presenza, è stato facile parlare un po’ con qualche isolano vero. Come quel signore, che nella sua bottega stava lì a riordinare le sue carte, e che ha acconsentito alla mia richiesta di fotografare il luogo, senza immaginare che in realtà stavo fotografando lui.

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Grazie a lei, ho potuto apprezzare e fotografare una spiaggia che, da sola, non avrei mai scoperto.

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Spiaggia di mare vero, profumo di salsedine,  e come unici abitanti dei  pescatori in barca  e dei ragazzi che giocavano con un pallone.

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E sempre grazie a lei – soprattutto – ho saputo del fatto che al mattino  lungo il molo sarebbe stato possibile assistere al rientro delle barche e alla vendita diretta del pesce. Tentazione cui non sono riuscita a resistere, ed ho fatto bene: perché grazie a quella levataccia (che ho diviso con Marianna, Elisa e Rosalia) ho potuto scoprire la luce più autentica dell’isola.

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Sì, la luce: perché – e qui forse è la fotografa che è in me che parlaogni luogo fisico ha una *sua* luce. Che dipende certo dall’esposizione e che brilla in tutto il suo splendore una sola volta al giorno. Per Ischia Ponte, questo momento è al mattino: ed è un momento magico, fatto di luce e riflessi dorati che ti circondano fino ad abbracciarti, fino a farti sentire in qualche modo parte di quel  luogo.

E solo se mezzo addormentati,
udiamo senza sapere che udiamo,
essa ci parla della speranza
verso la quale, come un bambino
che dorme, dormendo sorridiamo.

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E anche qui, profumo di salsedine. E sensazione di essere *a casa* : al punto da mettermi a chiacchierare, tra uno scatto e l’altro,  con un pescatore che mi aveva colpito per la sua posa in controluce, ai piedi del Castello Aragonese (e che mi ha ritrovato via mail, tramite sua figlia, per chiedermi di vedere che cosa avevo combinato con la mia macchina fotografica. Desiderio, questo, che realizzerò prestissimo).

Poi via, verso quell’altura fatta di pietra e muri: da dove, si intuisce, si potrà spalancare lo sguardo su qualcosa che assomiglia all’infinito.

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Si sale in ascensore e si percorrono scale e sentieri alla scoperta di ogni sua parte: alcuna fatta di luce e di splendore (come quella che si affaccia su Procida), altre – invece – di buio e dell’orrore della storia di donne rinchiuse tra quelle mura non per vocazione ma per questioni dinastiche. E costrette a rinunciare al proprio corpo non solo in vita, ma persino dopo la morte: “Le monache defunte, infatti, non venivano propriamente seppellite, ma messe in posizione seduta su sedili di pietra che, al centro, erano dotati di un buco con sotto un vaso d’argilla: erano detti “scolatoi” e servivano a raccogliere i liquami prodotti dalla decomposizione dei corpi. Ogni giorno le suore vive si recavano a far visita alle consorelle; la vista dei corpi consumati e in decomposizione doveva servire loro per meditare sulla fragilità della carne e sulla pochezza della vita terrena.” 

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Finita la  perlustrazione del castello, è iniziata quella dell’aspetto meno turistica dell’isola con la visita alla cantina Pietratorcia (e la visita al Fosso dei conigli, la passeggiata nella vigna panoramica e la visita alla cantina dei legni del 1700). Il tutto accompagnato da un ottimo pranzo e dall’ottima compagnia di Valentina, che da allora in poi ci ha accompagnato anche lei nella scoperta dell’isola, e suo padre che ci ha raccontato della sua vigna, delle sue botti e dei suoi vini.

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E poi, dopo il pranzo, il paesaggio cambia di nuovo: si torna al mare e all’azzurro con un giro dell’isola alla scoperta degli angoli più suggestivi. Come la Chiesa del Soccorso, dove è sin troppo facile immaginare quanto dolore abbia visto quel piazzale nel corso dei secoli, e quante urla di donna siano risuonate in direzione di quel mare, tanto amato e tanto maledetto dalle donne dei pescatori.

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E poi la passeggiata al borgo di Sant’Angelo. Con sosta preliminare dall’*acquafrescaio* del  luogo. Che non solo ci ha dissetato con una splendida spremuta, ma ci ha anche intrattenuto  a lungo con la sua teatralità tutta partenopea.

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A Sant’Angelo, altra luce: quella del tramonto. Calda e viva, al nostro arrivo…

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… avvolgente, cupa e al tempo stesso vivissima, mentre stiamo per andare via.

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L’indomani mattina, invece, la realizzazione del sogno più grande ed inatteso: le cucine del Mosaico, e lo chef Nino Di Costanzo. Giuro: se avessi mai dovuto esprimere un desiderio su Ischia, sarebbe stato quello (e Valentina me ne è testimone) ed incredibilmente quel giorno ho scoperto che anche desideri come questi possono realizzarsi: io e le altre vincitrici saremmo state ospiti dello chef per realizzare, con lui e con il suo staff, alcuni piatti da servire poi ai nostri accompagnatori.

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Un sogno, dicevo, che ho vissuto al punto di non avere voglia di rischiare di interromperlo. Per questo, ho saltato la visita al Negombo, di cui mi avevano detto meraviglie  ma che comunque ho scelto di non visitare: troppe emozioni in poche ore, troppa stanchezza, e la sensazione che due ore non mi sarebbero bastate per vivere “davvero”  un luogo del genere. Per cui, non ci sono andata: scegliendo cosi’, come faccio di solito in ogni luogo che visitando finisco per amare, di mettere da parte un motivo per tornare.

E a Ischia, appunto, voglio e devo tornare.

Sono isole fortunate,
sono terre che non hanno luogo,
dove il Re vive aspettando.
Ma, se vi andiamo destando
tace la voce e solo c’è il mare.

 

 

 

Ps. le foto che ho scattato  a Ischia, in formato originale (e in numero superiore a quelle inserite in questo post) sono qui, su Flickr.

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