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“Il limite peggiore della trasmissione di Report, sui food blogger? Essere una trasmissione vecchia”


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Ho aspettato un po’ prima di scriverne: più che schierarmi, infatti, mi piace riflettere. E in questi giorni ho assistito il più delle volte a qualcosa che assomigliava solo ad una forma di schieramento: food blogger da una parte, il resto del mondo dall’altra. Giornalisti in prima linea, categoria – soprattutto quella dei free lance – che si sente evidentemente minacciata da questa forma nuova di concorrenza considerata – a torto o ragione – di tipo sleale.

Ho provato a rifletterci un po’ su, a freddo e mi sono resa conto che – a differenza di molte tra le mie colleghe – non sono indignata neppure un po’. Quello cui abbiamo assistito, infatti, è una trasmissione *vecchia*, che non riesce a leggere la realtà di questo settore e – soprattutto – la sua continua e velocissima evoluzione.

Report ha parlato di food blogger. Ma questo termine, oggi, può considerarsi ancora attuale?
Lo era, indubbiamente, una decina di anni fa ma nell’ambito del digitale – e anche della comunicazione in questo settore – dire *dieci anni fa* equivale a parlare di preistoria.

Questo certamente non vuol dire che non esistano pù i food blogger: la rete ne è piena. Ma vuol dire anche guardare ad una parte sola del fenomeno. Trascurando cioè che accanto a questi, oggi esistono diverse altre categorie che si definiscono food blogger ma che tali non lo sono più da un pezzo. Ne cito alcune, senza alcuna pretesa di essere esaustiva.

I blogger comunicatori, per esempio. Quelli che grazie alla competenza acquisita sul campo hanno iniziato a lavorare per delle aziende, con l’incarico di produrre comunicazione social (e non solo).

Oppure i blogger*organizzatori*, quelli che cioè si sono costruiti – attraverso un network o altre forme di associazione, anche autogestite – un ruolo di organizzazione del lavoro di altri blog. In cambio di reddito diretto, quando esiste un finanziatore, oppure indiretto (aumento di possibilità di lavoro, per esempio, o pubblicazione di libri o altro ancora)

Ancora, i blogger imprenditori di se stessi. Persone cioè che – come Chiara Maci nel mondo del food o Chiara Ferragni in quello del fashion – hanno trasformato la loro attività in un un marchio e che – giustamente – chiedono di essere pagati per metterlo a disposizione delle aziende.

Ecco, sotto questo aspetto, Report è stata una trasmissione estremamente superficiale: ha scelto cioè  di rappresentare il mondo della comunicazione del food di oggi attraverso una categoria che non esiste più. Almeno, non nei termini assoluti in cui ha scelto di parlarne.

Non si può infatti prendere una persona che ha fatto di sé una azienda e rimproverarle – tra le righe – di farsi pagare per i propri post pubblicitari non dichiarati come tali. Non in un un mondo in cui queste persone esistono in tutti i settori: Instagram è pieno di questi personaggi  (che il più delle volte, oltretutto, non hanno neppure un blog) così come ne è pieno Youtube o anche (per spostarci nel reale) gli ipermercati nelle giornate speciali, o le discoteche nelle serate di ospitate etc.

Il problema vero quindi non è come hanno preteso di spiegarci il food blogger che fa pubblicità non dichiarata ma il fatto che se esistono queste persone è semplicemente perché – evidentemente – qualcuno le cerca in quanto scelte di immagine redditizie.

Report, quindi, secondo me in questo caso ha sbagliato il colpo. Ha dimostrato di essere una trasmissione vecchia che non sa leggere la realtà nella sua evoluzione.

A me però, resta il timore che il colpo lo abbia sbagliato anche chi in seguito alla puntata si è indignato dimostrando di riconoscersi, anche lui, in una categoria che non esiste più nei termini in cui quella trasmissione ha provato a raccontarla.

Per quanto mi riguarda, a me ha sorpreso di più la mancanza di approfondimento che una mia presunta omologazione a partecipante ad un mondo fatto di marchette. Se non ne faccio, perché dovrei sentirmi toccata da questa cosa? Certo, esistono, lungi da me l’idea di negarlo: esistono come nel resto del mondo, per esempio quello giornalistico (per fare un esempio).

Ma posso, in maniera schietta e decisa, dire il mio sonoro ECCHISSENEFREGA?

Questo, che piaccia o no, è un lavoro. Che si può scegliere di fare in diversi modi: ognuno è libero di scegliere quale sia il migliore per sé. Ma stare ad indignarsi per queste cose, assomiglia al solito vecchio guardare il dito anziché la luna.

E questa, ripeto, è la cosa che mi ha sorpreso di più nella discussione seguita alla trasmissione.

Tristemente, sorpreso, aggiungo. Ho letto decine di persone che stanno investendo  il proprio tempo e il proprio lavoro nella costruzione di una attività lavorativa basata sulla solo attività di blogger non capire come in un lavoro di questo tipo non conti tanto imitare i modelli di successo (che, proprio grazie all’evoluzione di questo mondo, diventano inimitabili nel momento in cui si affermano) quanto riuscire ad immaginarne di nuovi

Certo, non è semplice: ma se si ha la pretesa di mettere assieme un proprio stile, è questo che bisogna cercare di fare. Smettendo di accontentarsi di essere story-tellers e sforzandosi di diventare story-readers. Non basta raccontare storie, occorre essere capaci di leggere nella realtà ciò che vale la pena di essere davvero raccontato.

E per questo servono etica, impegno, rigore. Non bastano gli inviti ad eventi.

E questa necessità di imparare a leggere la realtà, vale sia nel caso in cui si scrivano semplicemente ricette – un esempio? se volete essere letti dovete sapere COSA la gente ha voglia di leggere: sapete che esistono strumenti tecnici per capirlo? li conoscete? – sia che si voglia fare comunicazione ( di se stessi od altri poco importa: il risultato non cambia).

Insomma, Report ha raccontato un solo pezzo – minoritario, oltretutto – del mondo dei food blogger. Che rimane terreno interessante e divertente in cui avventurarsi e magari crescere, fino a farlo diventare un lavoro: a patto però  di scegliere (come in ogni occasione in cui si voglia davvero vivere un’esperienza )  “ dei due sentieri il meno battuto“.

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